di Mauro Carosio* (da “Varchi” n.18 aprile 2018)
Caro fratello bianco, quando sono nato ero nero,
quando sono cresciuto ero nero,
quando sto al sole, sono nero.
quando sono malato, sono nero,
quando io morirò sarò nero.
Mentre tu, uomo bianco, quando sei nato eri rosa,
quando sei cresciuto eri bianco,
quando vai al sole sei rosso, quando hai freddo sei blu,
quando hai paura sei verde,
quando sei malato sei giallo,
quando morirai sarai grigio.
Allora, di noi due, chi è l’uomo di colore?
Léopold Sédar Senghor
Si definisce straniero un individuo che per scelta o per altre ragioni si trova in un paese diverso dal proprio, per un tempo indeterminato, dovendo quindi convivere con persone e istituzioni dello stato che lo accoglie. Da sempre l’essere umano ha fatto i conti con la figura dello straniero avendone percezioni diverse a seconda del contesto sociale, civile e geografico. Spesso il termine viene declinato in maniera negativa in quanto diverso o qualcuno da cui difendersi.
L’etimologia del termine deriva dal latino “extra” che indica in senso fisico ciò che sta fuori rispetto a ciò che sta dentro e si associa ad altri termini quali: estraneo, strano o straniante; fuori dal mio contesto e quindi potenzialmente nemico o pericoloso rispetto al mio stare qui ed ora.
In un Occidente, che per quanto in crisi rimane un contesto economicamente in vantaggio rispetto al resto del mondo, la sempre maggiore presenza di stranieri provoca paura e ossessione per la sicurezza. Una sicurezza che vediamo traballare ad ogni sbarco di disperati che urlano vinti dal bisogno.
Proviamo a spostarci e a ribaltare la prospettiva. Uganda 2006, un piccolo villaggio alle falde del Ruwenzori. Arrivo insieme a un gruppo di amici bianchi, tra questi una bambina: bianchissima, bionda e con gli occhi azzurri. Su un prato c’è un gruppo di bambini locali che giocano. Alla vista dell’insolito ospite tutto si ferma. I bambini neri guardano la nuova arrivata con un senso di totale straniamento. Chi o cos’è questo essere simile a loro eppure così diverso. Tutto rimane immobile per alcuni minuti. La situazione diventa imbarazzante, i bambini si guardano tra loro lasciando trasparire una serie di emozioni: stupore, diffidenza, paura, curiosità. Ad un certo punto la piccola bianchissima prende un palloncino e si mette a correre tra l’erba. Tutto all’improvviso si risolve e in pochi istanti un’orda di bambini neri corrono dietro alla nuova arrivata con un’allegria paragonabile alla vista di un divertente fenomeno da circo. I bambini africani avevano paura della straniera perché non la conoscevano. Una volta capito che l’estranea non costituiva un pericolo, l’inclusione è stata automatica. Forse i bambini hanno un’innata capacità di risolvere gli inconvenienti grazie a un’attitudine che perderanno col passare degli anni.
Continuo a frequentare, per lavoro, il continente africano. Negli ultimi tempi, in particolare, mi reco un paio di volte l’anno in una zona rurale di un minuscolo paese africano fornitore di stranieri: il Benin. In questo luogo dimenticato dal resto del mondo mi sono sentito davvero straniero dal primo arrivo. Ancora oggi questa sensazione mi cattura ed ogni volta il rapporto con l’alterità mi costringe a riflessioni sempre più complesse. Sono diverso da loro, sono un bianco, arrivato in aereo, non chiedo aiuto e non porto via il lavoro a nessuno anche perché nel villaggio lavoro non ce n’è per nessuno.
Il primo impatto risale a quattro anni fa ed è stato stupefacente. Orde di bambini, mi corrono incontro mi salutano, mi toccano, sorridono e iniziano a parlare in una lingua incomprensibile. Uomini e donne seduti fuori dalle capanne sorridono, elargiscono saluti e gesti di benvenuto quando non offrono il loro aiuto immediato per alleggerire il peso del viaggiatore venuto da? America? Europa? Poco importa, l’ospite è illustre in quanto bianco. L’accoglienza riservata al nuovo arrivato si presenta quanto meno atipica rispetto ai canoni a cui siamo più avvezzi.
Nel corso degli anni la confidenza con l’ambiente e con gli esseri umani che vivono in questo microcosmo mi ha consentito di effettuare una piccola ricerca, tramite interviste o chiacchierate informali, per cercare di capire qual è realmente la loro percezione dello straniero, che in questo caso sono io. Ovviamente si tratta di un’indagine circoscritta a un piccolo contesto, si riferisce a questo momento storico – la figura del bianco è stata più volte analizzata da intellettuali africani in passato – e non vuole essere esaustiva o rappresentare in toto l’opinione che gli africani hanno di noi. Anche perché come diceva Riszard Kapucinski: “l’Africa è un continente troppo grande per poterlo descrivere. E’ un oceano, un pianeta a sè stante, un cosmo vario e ricchissimo. E’ solo per semplificare e per pura comodità che lo chiamiamo Africa. A parte la sua denominazione geografica, in realtà l’Africa non esiste”.
Rimangono interessanti alcuni concetti che risaltano dalle conversazioni effettuate. Concetti che si modificano a seconda dello status sociale dell’interlocutore scelto. “Dopo Dio ci siete voi! Se siete stati così forti da conquistare tutto il mondo significa che avete dei poteri che noi non abbiamo, la vostra presenza qui è un’occasione per migliorare la nostra condizione e magari, grazie a voi, uscire da questo stato di povertà”. Così parla Pascal, il benzinaio, che è ben felice di invitarmi nella sua modesta dimora ogni volta che passo dal suo distributore. Il tempo per chiacchierare è sempre tanto dal momento che la benzina viene versata nel serbatoio tramite bottiglie da litro. Pascal mi conosce, è una persona molto semplice e sorridente. Ogni volta mi chiede di portargli improbabili regali dall’Italia: un’automobile, un distributore o una moglie per il suo figlio minore. In questo caso Franz Fanon parlerebbe del complesso del colonizzato.
Diverso è il discorso che fa Victor: direttore della scuola superiore del villaggio: “Le cose stanno cambiando. Quando ero un ragazzo in Ghana, e mi capitava di vedere un bianco, io volevo la sua pelle. Io volevo avere la pelle bianca. Poi sono venuto in Benin con la mia famiglia e a scuola ho studiato il fenomeno della schiavitù e nello specifico il fatto che i bianchi hanno devastato l’Africa con la tratta degli schiavi. Ho iniziato a pensare che nella tratta stavano le radici della povertà dell’Africa, le ragioni del sottosviluppo. Quindi è chiaro che gli africani odiano i bianchi dopo tutto quello che è successo dalla tratta degli schiavi a poco tempo fa. Oggi quando vedo i bianchi non penso più quello che pensavo da ragazzo. I tempi sono cambiati, l’ultimo presidente degli Stati Uniti è un keniota. I neri lavorano in Europa e Stati Uniti. Siamo nell’era della globalizzazione. Gli africani stanno capendo che senza una cooperazione col resto del mondo non può esserci sviluppo Ma anche il resto del mondo sta guardando all’Africa come un partner fondamentale per lo sviluppo del pianeta. Anche le persone più povere, magari analfabete, persone che vivono in contesti rurali come questo stanno cambiando idea sul conto dei bianchi. Anche loro hanno capito che le cose sono cambiate. Magari molto più semplicemente pensano che un bianco è un’opportunità e quindi meglio conoscerlo e averci a che fare. In ogni caso per un intellettuale la presenza di uno straniero qui rappresenta un vantaggio per l’umanità. Magari per una persona meno istruita il bianco in giro per il villaggio è visto come una persona che cerca qualcosa di strano. Non necessariamente un nemico ma una sorta di esploratore per chissà quale bizzarro motivo.”
Dalle prime due conversazioni, in parte riportate, sembra che in questo milieu lo straniero – cioè il sottoscritto- non costituisca una minaccia. Qualcosa però mi insospettisce e mi spinge a dubitare dell’entusiasmo mostrato. Il bianco è vissuto solo come un’opportunità, quindi qualunque pregiudizio o opinione negativa viene artatamente negata? L’opinione di Flavien, giovane psicologo, chiarisce in buona parte il problema: “c’è una fetta di persone che pensa che la responsabilità dello stato in cui versiamo sia dei bianchi. L’Occidente si è arricchito sulle spalle dell’Africa. Il bianco non fa mai niente per niente, lo ha dimostrato nel corso della storia. Quindi la visione è ambigua. Chi pensa che il bianco sia un Dio, pensa che in quanto tale può fare del bene e quindi aiutarci. Però, guarda il vostro caso (sta parlando della missione umanitaria di cui faccio parte): voi siete venuti a distribuire farmaci e consultazioni mediche gratuite, ma molte persone non ne hanno usufruito volutamente per una questione di orgoglio. Non vogliono avere a che fare con voi per le responsabilità che ritengono che voi abbiate. Per quanto riguarda il continente africano nella sua interezza la visione del bianco dipende anche dallo stato di sicurezza del paese. Se c’è una guerra in corso è facile che si scatenino pregiudizi e odi nei confronti di un qualsivoglia straniero. Nel caso del Benin non è così. Questo è un paese decisamente pacifico, qui la gente vuole la pace e di conseguenza lo straniero/bianco nella maggior parte dei casi è ben accettato. Ti accorgi comunque quando qualcuno ti guarda in modo ostile, quando passi per la strada c’è una piccola percentuale di persone che non ti sorride e volge lo sguardo altrove”.
Flavien ha ragione. Una fetta di persone non mi considera, non mi saluta e non mi chiede cadeaux. Si tratta di una minoranza di cui percepisco la malcelata ostilità. Lo straniero è un’occasione di cui una minoranza non vuole usufruire, ma dal momento che trattasi di una minoranza il loro giudizio non è influente per una visione esaustiva. In un contesto così povero lo straniero può solo portare buone cose. Siamo strambi? Certo!
Bacho, un signore anziano, e quindi saggio, mi fa una domanda quantomeno scomoda: “ma è vero che in Europa si paga per dimagrire?”. Il mio imbarazzo è forte e cerco di dissimularlo arrampicandomi sugli specchi per trovare improbabili ragioni sugli agenti chimici che vengono introdotti nei nostri alimenti e che ci provocano un’innaturale gonfiore. Non so se l’ho convinto. Bacho continua e il suo intervento è divertente: “Lo straniero, il bianco è molto diverso da noi. Non solo per il colore della pelle. Soprattutto perché è ricco. E in un posto come questo cambia tutto. Lo straniero per quanto possa essere bizzarro, antipatico o imbarazzante non costituisce un problema. E’ comunque un’opportunità. Il bianco gira per le strade con le scarpe perché è ricco. Noi tutti abbiamo solo le ciabatte. Lo straniero va a bere la birra alla bouvette quando vuole. Noi siamo felicissimi quando lo straniero ci invita a bere perché per noi è troppo caro. Poi ci piace farci raccontare come si vive in Europa. Ci sono delle stranezze ma sorridiamo. Hai mai visto un ospizio in Africa? Soprattutto in campagna? Non ci sono perché per noi i vecchi sono i saggi ed è un onore averli in casa. Poi voi date del lei a tutti. Noi no. Ci diamo tutti del tu e le persone anziane le chiamiamo tutte mamma o papà. E’ una forma di rispetto che voi non avete. Chissà perché. Siete ricchi e non fate figli. Questa è una cosa per noi incomprensibile. Ma tutto questo non modifica il nostro giudizio su di voi perché potreste cambiarci la vita se solo lo voleste”.
Di nuovo lo straniero è visto come un’opportunità. In effetti anche nella cultura greca accogliere un estraneo nella propria casa con tutti gli onori e congedarlo con dei doni era un dovere religioso oltre che etico: l’ospite in realtà poteva nascondere un Dio sotto mentite spoglie.
Un dato interessante emerge anche da altre conversazioni. Qui la gente ha meno paure perché vive in un contesto famigliare e comunitario molto coeso. In Occidente abbiamo l’individuo che, appartenendo a una società di massa alienante, è solo, e da solo si confronta con una moltitudine. In questo contesto accade l’opposto. Qui l’individuo in quanto tale non esiste. L’individuo esiste in quanto appartenente a una società, a un lignaggio e a un nucleo familiare. Non è un caso che la figura del single da queste parti non venga contemplata. Questa modalità comunitaria fa sì che la persona si senta più protetta e che avversità, problemi o paure vengano stemperate da una costante condivisione. Le occasioni per l’incontro non mancano. Dalle riunioni di villaggio, alla messa, alla festa per qualunque rito di passaggio la gente si parla sempre. La comunità davanti all’individuo: questo può far sì che in una società dove la coesione è molto forte un elemento di destabilizzazione quale può essere uno straniero faccia meno paura. Lo “straniero” fa paura quando costituisce una minaccia per il tuo benessere, quando l’essere umano teme di perdere qualcosa. In un contesto di deprivazione totale un nuovo arrivato nella peggiore delle ipotesi non cambia nulla.
Per approfondire
Fanon F., I dannati della terra, Piccola biblioteca Einaudi, Torino (2007)
Fanon F., Pelle nera maschere bianche, Edizioni ETS, Pisa (2015)
Kapuscinski R., Ebano, Feltrinelli, Milano (2000)
Geertz C., Interpretazioni di culture, Il Mulino, Bologna (1998)
Malinowski B., Giornale di un antropologo, Armando Editore, Roma (2000)
Olaudah E., L’incredibile storia di Olaudah Equiano, o Gustavus Vassa, detto l’Africano, Epochè, Novi Ligure (2008)
*Mauro Carosio, antropologo, è Scientific Advisor cattedra UNESCO, Antropologia della salute, biosfera, sistemi di cura presso l’Università degli studi di Genova.
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