Parlare con un minimo di efficacia e credibilità di “Social Business” premette qualche indispensabile considerazione sul rapporto difficile (e, in questi anni di crisi, da quella reso quasi impossibile) tra due attori del nostro difficilissimo presente: per schematizzare, for profit e non profit.
Eppure il tema della sostenibilità (in tutti i suoi aspetti, con una rilevanza sempre maggiore per quello sociale) trova credito e spazio sempre maggiori negli indirizzi strategici delle medie e grandi imprese. Secondo Giuseppe Falco, amministratore delegato di Boston Consulting Italia, una delle grandi firme internazionali della consulenza manageriale, nel 2010 la sostenibilità era considerata una priorità strategica per il 46% dei dirigenti d’azienda, oggi questa percentuale è salita addirittura al 65%.
Il punto è chiaro: sul tavolo non c’è più la filantropia, ma la capacità di creare valore economico negli ambiti prioritari della sostenibilità ambientale (fra i quali riveste importanza centrale la capacità di produrre e distribuire di più utilizzando meno risorse) e sociale. Non solo il Bilancio Sociale e Marketing Solidale sono percepiti come elementi di competizione reale sul mercato, ma tutti i processi aziendali vengono riconsiderati in una prospettiva di sostenibilità non solo nei comparti industriali maturi (agroalimentare, chimica di consumo, information technology) ma anche in settori fino a oggi lontani da qualsiasi sensibilità a riguardo. Il gruppo Chalhoub, leader nella distribuzione dei più importanti marchi della moda nell’area del Golfo (più di 600 boutiques e 11 mila dipendenti in 14 Paesi), ha deciso di dedicare il suo terzo white paper a “Il lusso nel golfo: un futuro sostenibile?”. Tema cruciale, in linea con lo spirito del padiglione di Expo 2015 degli Emirati.
Ciò nonostante, nel nostro paese la crescente disponibilità verso la sostenibilità sociale non è segnata, se non in pochi casi virtuosi, dalla collaborazione tra impresa e terzo settore, ma dal sospetto se non addirittura dal rifiuto reciproco. Perché?
Vista dal lato dell’impresa, la collaborazione possibile è invece frenata dal sostanziale ritardo delle aziende non profit in termini di competenze e metodologie comuni, dalla frammentazione dell’offerta, e dalla percezione del terzo settore quale soggetto condizionato dalla logica dei finanziamenti pubblici. Il sospetto da parte del for profit è anche, quindi, sulla natura “antropologica” del terzo settore, su una semantica sostanzialmente diversa o almeno non immediatamente assimilabile. Questo può implicare, indirettamente, anche considerazioni e reazioni di natura politica o ideologica.
Dal lato opposto, l’impresa non viene considerata possibile partner ma nella migliore delle ipotesi una vacca da mungere per iniziative di etica sociale utili esclusivamente (alla vacca stessa) a indennizzare la società del male fatto con la propria presenza e i propri modi di organizzarsi, di produrre e di distribuire.
Il risultato è la sostanziale mancanza di sinergia tra l’Impresa e il non profit italiano, nonostante questo, secondo ISTAT, conti più di 300.00 istituzioni attive, 4,5 milioni di volontari, circa 700.000 dipendenti e 270.000 lavoratori esterni.
Questo stato di cose fa sì che emerga abbastanza chiaramente, nella grande impresa, la tendenza a “supplire” le debolezze vere o presunte dell’offerta non profit trasferendo e formando competenze e strumenti adatti e/o necessari a presentare al meglio i propri progetti per i finanziamenti o le partnership del caso. Quest’ultimo aspetto ha una corrispondenza precisa con un processo in essere da qualche anno nella media e grande impresa: il “consolidamento dei fornitori”, dettato da un insieme complesso di ragioni economiche e organizzative. Le premesse metodologiche reputate più importanti per una collaborazione stabile e redditizia tra i due settori sarebbero (o sarebbero state) così riassumibili:
Data l’oggettiva difficoltà, culturale e organizzativa della maggior parte del non profit (anche le dimensioni non giocano mediamente a loro favore) a lavorare su premesse comuni, l’impresa sembra orientata a perseguire l’obiettivo strategico della sostenibilità in autonomia. E sembra farlo mettendo progressivamente da parte coloro che fino a oggi sono stati i protagonisti di una Corporate Social Responsibility sostanzialmente di facciata: i responsabili marketing e comunicazione in buona parte orientati a posizionamenti strategici (nell’ecosistema azienda) e modelli di comportamento obsoleti, ancorati alla retorica della crescita comunque e nonostante, orientati al solo mercato di presenza, e di sensibilità ancora debole sulla figura dell’azienda come soggetto sociale.
A Expo 2015 è stato dato peraltro un segnale importante, ancorché limitato, della necessità di questa cooperazione: il Padiglione Della Società Civile, risultato di un investimento significativo nella ristrutturazione della Cascina Triulza, l’unico manufatto già esistente sul sito espositivo. A gestirlo è la Fondazione Triulza, unione di 58 organizzazioni di rilevanza nazionale e internazionale, for profit e non profit, che ha lo scopo di incentivare la collaborazione fra più soggetti in grado di promuovere proposte per un futuro sostenibile.
In un quadro siffatto, prende sempre più forza la “terza via” del social business. Imprese finalizzate al profitto costruite su strategie, tecnologie e processi atti a coinvolgere sistematicamente tutti gli individui che compongono il proprio ecosistema (dipendenti, clienti, partner, fornitori) in una reale competizione di mercato non meno che nella massimizzazione del valore scambiato.
di Michele Caprini.
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