Diario di Viaggio. Marzo 2014 – Sokpontà Benin.
I dettagli del progetto
Hanno partecipato 4 ragazze ospiti della Comunità Minerva, 2 educatori della comunità e un medico genovese, volontario dell’Abbraccio che ha già partecipato ad una spedizione in Benin, il dott. Giuseppe Di Menza e altri volontari.
PRIMA DI PARTIRE: e’ stato organizzato un percorso di formazione in preparazione al viaggio, in cui si sono discusse le motivazioni, aspettative, obiettivi personali oltre ovviamente agli aspetti logistici e organizzativi indispensabili. Parte di questa formazione è stata fatta anche con gli altri volontari, compagni di viaggio e di missione.
DESTINAZIONE: Republique du Benin, Villaggio di Sokponta’ nel Comune di Glazoue’, Dipartimento Le Colline.
QUANDO e DURATA: 13 giorni, dal 26 marzo al 6 aprile 2014
ALLOGGIO: struttura delle Suore degli Angeli di Napoli a Sokponta’, adiacente all’Hopital des Enfants e alla scuola-convitto costruiti dall’Associazione “l’Abbraccio”
COSA ABBIAMO FATTO: le ragazze, insieme agli educatori, ai medici e ai volontari, sono stati chiamati a dedicarsi principalmente ai bambini: a scuola con attività di animazione in collaborazione con i docenti della struttura, in ambito sanitario con intrattenimento dei piccoli ricoverati in ospedale, affiancamento dei medici nelle visite sul territorio, sia nei Dispensari preposti all’incontro con i malati, sia nei villaggi per raggiungere i malati più anziani impossibilitati a muoversi. Indispensabile è stata la necessità per tutti di essere disponibili a fare ciò che in quel momento il villaggio e i suoi abitanti hanno richiesto. Accanto a questa parte più operativa, sono state fatte escursioni ai villaggi e alle cittadine circostanti per ammirare e assaporare storia, cultura, cibo e usanze degli amici beninesi.
Immagini del viaggio
Cosa ha lasciato questa esperienza
Per le ragazze ospiti della comunità (CEA Minerva) che hanno partecipato alla prima missione in Benin, ALTRAFRICA ha avuto la finalità di creare un’esperienza interculturale complessa e intensa, focalizzata sulle caratteristiche dell’età, quali la necessità di identificarsi ed appartenere ad un gruppo, in questo caso composto da coetanei ma anche da adulti (educatori e medici) che hanno condiviso con le ragazze sia la preparazione al viaggio che l’intera esperienza di volontariato nel villaggio di Sokpontà.
Un altro aspetto importante è stato il bisogno di mettersi alla prova in situazioni estreme (nel nostro caso ricercate di solito in comportamenti gravemente a rischio come l’uso di sostanze o il compimento di reati di varia gravità) per provare e dimostrare il proprio valore, così come il desiderio di sentirsi utili, di esplorare le proprie potenzialità e capacità difficilmente esprimibili in contesti abitualmente frustranti (dove ci si “aspetta” il cliché della ragazzina difficile).
Individuati questi aspetti, il progetto si è caratterizzato per la brevità e l’intensità dell’esperienza, in modo funzionale alla limitata permanenza media in comunità, ponendosi obiettivi precisi quali l’incremento dell’autostima di ogni ragazza partecipante, la fiducia nelle proprie capacità, nella propria efficacia personale e utilità sociale, per poi generalizzare questo apprendimento in ogni altro ambito della propria vita. Altro obiettivo non trascurabile è stato il tentativo di ampliare per ognuna di loro di una rete di relazioni sociali significative e “sane”, sia con il gruppo dei pari che con gli adulti accompagnatori grazie a un processo di identificazione con i volontari e con l’attività stessa, assumendola come possibile parte integrante della propria personalità in evoluzione. Il modificare temporaneamente la prospettiva consueta, lasciando intravedere altre possibilità attraverso lo scambio con un mondo lontano ma reale, condividendo – anche se per un breve periodo – un modo di vivere inimmaginabile per il mondo occidentale è stato fondamentale per la riuscita dell’impresa.
Al ritorno dal viaggio, l’elaborazione dell’esperienza ha portato a un’evoluzione della stessa da “evento” a “competenza”, processo ancora in corso mentre si scrive.
Per facilitare questo passaggio, la riflessione si è concentrata su alcuni punti centrali: le motivazioni ad aderire alla proposta di volontariato, il contestoparticolare in cui svolgere la propria attività e le relazioni instaurate (con i pari, gli adulti e le relazioni ”d’aiuto”).
Ognuno di questi punti ha determinato l’attivazione di capacità difficilmente sollecitabili altrimenti nei contesti di vita abituali, dove lo “status” delle ragazzine è quasi sempre socialmente determinato. In particolare le motivazioni hanno fatto leva su capacità come la disponibilità ad affrontare uno stile di vita completamente diverso (ad esempio, solo prospettare banalmente due settimane senza uso del cellulare ha spiazzato molte delle ragazze) la curiosità e la disponibilità a mettere in discussione stereotipi culturali sull’Africa (sfidare ad esempio la paura delle malattie) stimolando la capacità di critica e, in senso introspettivo, la volontà di mettersi alla prova.
Il contesto ha comportato uno “shock culturale” intenso e affrontato tutte le sere, durante il viaggio, in un gruppo di confronto serale con tutti i partecipanti alla missione durante il quale emozioni, dubbi, curiosità e pensieri hanno trovato un luogo di espressione ed elaborazione collettiva. Inoltre, il contesto asimmetrico di aiuto ha facilitato le ragazze a mettersi in gioco e a proporsi autenticamente, senza il limite della diffidenza o il paternalismo che solitamente evoca la loro posizione sociale a casa. Le riflessioni sul contesto accompagnano tuttora gli incontri, diventando più lucidi grazie alla distanza temporale e geografica che il ritorno ha imposto.
Le relazioni significative instaurate durante il viaggio, ed alcune mantenute successivamente tramite gli incontri dedicati, hanno sollecitato una sorta di decentramento culturale, capacità empatiche (soprattutto nelle relazioni d’aiuto con gli africani incontrati nei dispensari, in ospedale o a scuola) e capacità di autocritica rispetto al proprio modo di interagire in un contesto così differente. Le ragazze hanno avuto capacità di chiedere informazioni agli adulti di riferimento riguardo al contesto (cosa era permesso o meno, come fare fotografie, prendere in braccio bambini, regalare caramelle, accostando a questo il significato dell’azione percepito dalle persone con cui interagivano), hanno sviluppato capacità di osservazione e conseguente adattamento del proprio comportamento e del senso critico sulle attività proposte (per esempio, discutere il contenuto e le modalità di realizzazione dell’attività teatrale a scuola, è stata in questo senso un’occasione molto stimolante). Infine, complessivamente, la capacità fondamentale attivata è stata quella di cogliere bisogni e linguaggi culturali diversi, comprendendo che era necessario trovare un punto di incontro con l’altro, “l’africano”, in grado di rendere efficace la comunicazione e la relazione.
Condividere tutti questi passaggi sia in viaggio che al ritorno, ha permesso alle ragazze di fermarsi a pensare all’esperienza e arrivare a concepire la cultura come un fenomeno dinamico e plurale, non cristallizzato e definitivo come spesso è stato da loro vissuto nel contesto di vita abituale.
Ha permesso inoltre di imparare ad argomentare le proprie idee per sostenere il confronto nei gruppi e a riconoscere e trasmettere inoltre emozioni molto intense.