Si festeggia la Resistenza in tutta Italia e non è mancato articolo, commento, intervista, convegno in cui non ad un certo punto non venisse posta la domanda: ma a cosa si “resiste” 70 anni dopo?
Non è facile ne’ opportuno definire una risposta condivisa a questa domanda, ma credo sia interessante, per chi è arrivato a consultare le pagine del nostro sito, sapere che come equipe della Comunità Educativa abbiamo discusso e cercato di definire come coniugare l’educazione al concetto di resistenza, intesa come forma di pensiero critico attuale e necessaria.
Nel percorso, avviato qualche mese fa e concluso (almeno provvisoriamente) a marzo, ci siamo fatti aiutare dal prof. Raffaelle Mantegazza , docente di Pedagogia della Resistenza all’Universita’ Bicocca di Milano. Inevitabile partire dal fatto che resistere al nazifascismo significava, e significa, resistere a forme di oppressione, ingiustizia e discriminazione che, comunque, sono state solo in parte sconfitte dai partigiani e dalla storia.
Abbiamo quindi condiviso una specie di postulato fondamentale: non esistono pedagogie neutre, politiche giovanili indipendenti dall’assetto politico in atto, ed educare non è una “pratica naturale” ma un progetto definito dall’assetto sociale storicamente determinato. Per dirla come Mantegazza, ” …l’educazione non è ne’ buona, ne’ cattiva. Essa è nata come cinghia di trasmissione delle caratteristiche antropologiche desiderate dall’aspetto socioeconomico che di volta in volta e’ dominante” (Raffaele Mantegazza, “Pedagogia della Resistenza” ed. Città Aperta). In pratica, anche i nazisti e i fascisti avevano un loro progetto pedagogico, funzionale al loro sistema di pensiero politico e all’idea di uomo – razza che andavano sostenendo: a quello era necessario contrapporre un ideale di libertà, dignità e diritto che permettesse la speranza nel superamento della dittatura.
Gli educatori ed i pedagogisti, quindi, vengono formati coerentemente all’idea di soggetto che si intende “modellare”: e qui potremmo azzardare qualche ipotesi su quale e’ uno dei possibili modelli attualmente dominanti, ma per non dilungarmi troppo rimando alla lettura dell’articolo di “La Repubblica” intitolato “Ciuccio e iPad”, consultabile nella nostra Home page: è un articolo che, per esempio, rende l’idea della passività cui una certa forma di sviluppo ci sta educando.
Ecco delinearsi, quindi, una prima ipotesi di lavoro per gli educatori che intendano porsi anche come soggetti “resistenti” : esaminare con senso critico gli orientamenti pedagogici dominanti attualmente nella società, domandarsi per quale “integrazione” lavorare, fare un’attenta analisi della domanda di fronte alle richieste delle istituzioni che chiedono un “reinserimento”, approfondire le cause dell’emarginazione in cui il soggetto si è trovato, costruire nuove ipotesi educative intese a non riprodurre il presente con le sue contraddizioni in termini di diseguaglianze, discriminazioni, razzismi.
Occorre inoltre, secondo noi, “resistere” ai luoghi comuni dell’educazione, a pratiche e metodi consolidati di cui non ci si domanda più ne’ il senso ne’ l’efficacia, alla costruzione di luoghi educativi in cui la miccia della critica viene sistematicamente disinnescata ed il controllo sociale risulta l’attività prevalente: ed è tutto accaduto mentre si lavorava, quasi senza accorgersene.
Solo partendo da questi approfondimenti diventa possibile, per gli educatori, realizzare spazi educativi in cui il pensiero critico permetta alla persona di ridefinirsi, di scegliere a quale “normalità” appartenere, di immaginare a quale progetto di sviluppo sociale dedicarsi, a quali condizionamenti sfuggire, quale mappa del mondo ridisegnare.
Per questo abbiamo condiviso in equipe che lo scopo del nostro lavoro educativo sia, in via definitiva, accompagnare le persone che ci vengono affidate a resistere alla convinzione dell’ineluttabilità del proprio destino socialmente determinato, alla riappropriazione del senso della propria storia nel bene e nel male, e all’apertura di nuovi orizzonti di vita e di pensiero che permettano loro di “essere” in questa società in un modo che sia quanto più costruttivo possibile.
Anche per questo, infine, abbiamo scelto di collaborare con “Libera” e di avviare un progetto di cooperazione allo sviluppo in Africa: è il nostro modo di proporre altre prospettive, altri sguardi, di “resistere” alla rassegnazione innalzando voci di possibilità e cambiamento.
Maria Pia Caprini, Presidente Cooperativa Minerva
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