Parlare di cooperazione internazionale espone a sguardi curiosi quando va bene, o sospettosi… quando va male.
E’ passato il tempo in cui chi era impegnato in questo settore era sicuramente un’ingenuo, un sognatore o un missionario: ne veniamo da mesi in cui anche il lavoro delle ONG europee impegnate a salvare migranti nel Mediterraneo, è stato declassato su parte della stampa a collusione con i trafficanti di uomini.
Non è da meno il problema dell’”invasione “ della Cina in Africa, nella quale la prima si appropria ed esporta materie prime o manodopera a bassissimo costo della seconda, in modo ancora più imponente che nella precedente era coloniale,
Parlare di cooperazione internazionale significa quindi addentrarsi in un numero consistente di variabili, che vanno appunto da forme di neocolonialismo, negli aspetti estremi della cosiddetta “cooperazione allo sviluppo” non regolati da accordi intragovernativi, alle più semplici forme di aiuto umanitario, come capita per esempio nelle emergenze umanitarie, in cui spicca la partecipazione di singoli volontari e di organizzazioni non profit.
Questa variabilità consente di fare delle scelte, quindi qui parleremo di quelle fatte dalla cooperativa Minerva e di un primo approssimativo bilancio di quanto e soprattutto “come” fatto finora, in tre anni di attività in Benin.
Il primo aspetto fondamentale è che la cooperazione internazionale inizia a casa propria, nel nostro caso in Italia: proprio per le variabili presenti, quelle cui si accennava sopra, incontrarsi con diverse organizzazioni impegnate negli stessi territori, in questo caso in Benin, pone la necessità di stabilire rapporti di parternariato costruiti mediando le differenze di “missione” proprie di ogni organizzazione: per esempio, il dialogo fra una missione “caritativa” ed una fondata sui diritti umani ha molto in comune sulle aspirazioni generiche, ma differisce in maniera sostanziale nei metodi di lavoro.
Nella nostra esperienza, incontrare un’organizzazione di volontariato che aveva già costruito un’ospedale pediatrico in una zona rurale, in collaborazione con un ordine di suore, ha significato inserirsi in relazioni consolidate apportando un altro punto di vista: quello che vedeva l’ospedale isolato dal contesto sociale, guardato anche con diffidenza, e soprattutto non percepito davvero come una risorsa locale, ma come qualcosa “calato dall’alto”, pagato dai “bianchi”.
Va da se’ che questo comportava effetti concreti come scarsa affluenza per i parti, difficoltà di accoglienza dei saperi tradizionali da parte del personale, soprattutto per quanto ritenuto in contrasto con il sistema d credenze cattolico (riti, uso di erbe raccolte e lavorate in modi particolari etc ).
Il lavoro che abbiamo avviato, in collaborazione con i partner locali, è quello di tessere connessioni nel villaggio e fra questo è l’ospedale, utilizzando la definizione di progetti su necessità individuate da chi quell’area la vive: l’abbandono scolastico, soprattutto femminile, le gravidanze precoci con alta mortalità o disabilità connessi, le difficoltà delle donne a sostenere il lavoro oltre la famiglia ed il campo (quest’ultimo molto sensibile alle variabili climatiche e alla presenza di acqua).
– Ecco quindi un primo principio di riferimento che ha guidato l’approccio della cooperativa: in questo tipo di cooperazione i progetti sono strumenti, non fini, e sono utili per stabilire relazioni di scambio fra tutti i soggetti coinvolti, sia bianchi che neri, medici o suore, povero e meno povero, ed hanno lo scopo di sollecitare domande di salute, di diritti universalmente riconosciuti su istruzione e tutela dell’infanzia, di ritrovare la consapevolezza – soprattutto per i “bianchi” – delle differenze economiche e sociali profonde che definiscono il pianeta, potendo così integrare altre prospettive nel proprio modo di vivere e pensare.
La relazione viene messa al centro del lavoro insieme: significa quindi mettere al centro la comunità ed il suo territorio, con un approccio dal basso che individua bisogni, condivide l’organizzazione e indirizza le risorse umane ed economiche necessarie.
– Un secondo principio lo individuiamo dicendo che è una cooperazione che necessita di tempo, di continuità nei rapporti, di ricerca, di fatica per trovare il denaro necessario fatto per lo più da piccole donazioni private di singole persone chiamate a condividere gli scopi, lontana dalle grandi progettazioni finanziate dai governi, apparentemente di forte impatto ma, spesso, con esiti superficiali che tendono ad esaurirsi in breve tempo: ne sono esempio ospedali, infrastrutture, pozzi costruiti e diventati in breve tempo “cattedrali nel deserto”, o luoghi da cui prelevare materiale altrimenti utilizzabile.
– Un terzo principio è nel sapere che non è una cooperazione che pretende di risolvere l’asimmetria esistente fra la comunità locale e la comunità dei cooperanti “bianchi”, ma tende a ridurne il gap esistente orientando i progetti a produrre cambiamenti culturali tali da permettere al progetto, forse, di autorigenerarsi ed evolvere attivando sempre più risorse locali per soddisfare bisogni e rispondere a domande via via più articolate. Inoltre, è proprio affermando la logica del diritto che ci si attrezza per superare quella del bisogno: lavorando in questa prospettiva, la tradizionale divisione fra chi è costretto a chiedere e chi vuole aiutare può tendenzialmente ricomporsi in un progetto comune di affermazione di un diritto (per esempio diritto all’istruzione o alla tutela della salute materno infantile).
Infine, e come quarto principio, il punto non è “aiutare l’Africa”, ma aiutare tutti a riappropriarsi dell’azione, della possibilità concreta di agire nelle disparità sociali ed assenza di diritti in Italia come in Africa o altrove, respingendo un’idea di cooperazione delegata ai governi, lontana dall’ esperienza diretta, quindi lontana dalle occasioni di pensiero e mediazione con altre realtà. La cooperativa ha scelto quindi di lavorare in un pugno di persone e in un angolo di mondo, ma con modalità riproducibili in qualsiasi ordine di grandezza: la cooperazione diventa quindi accessibile a chiunque (i nostri viaggi sono aperti a tutti e non solo a professionisti ), partecipata, con un forte senso del limite ma anche della possibilità e della ricerca.
Il rischio dell’autoreferenzialita’ viene contrastato attraverso la costruzione, come si diceva all’inizio, di forti reti di collaborazioni e partenariati e mantenendo l’attenzione sulle iniziative dei governi locali sui temi di intervento in cui si lavora: anche qui, costruendo sinergie con le istituzioni locali, tenendo l’azione orientata verso il faro degli Obiettivi del Millennio (Millennium Developement Goals) proposti dalle Nazioni Unite.