di MPia Caprini
Ho letto con attenzione, e piu’ volte, l’articolo di Massimo Recalcati apparso su Repubblica venerdi: volevo essere sicura di aver capito bene.
In sostanza, in questo articolo Recalcati sostiene che il mestiere di genitore è una “missione impossibile” e che solo chi ne è consapevole può approssimare un accettabile tentativo (comunque fallimentare); che tutto quello di cui hanno bisogno i figli è il “segno d’amore, ovvero riconoscerli nella loro assoluta particolarità” che la pletora di esperti sul tema (“solitamente, a loro volta, genitori protagonisti di fallimenti”) produce “educazione prèt a portèr” standardizzata e predefinita”, rifuggita dai genitori approssimativamente buoni.
Il titolo, poi, riassume ulteriormente i concetti: “L’importante è dare ai figli la loro libertà”, una suggestione piuttosto vaga, considerato che il punto fra genitori è proprio – spesso – mettersi d’accordo su cosa significa “libertà” per i propri figli, ma anche “amore”, “cura”, “protezione” e via dicendo.
Eccone alcune interpretazioni estreme, incontrate quotidianamente nel lavoro di educatrice in questa parte del mondo e in questi anni:
– Libertà: si passa da non autorizzare il figlio alla gita scolastica, in quanto inutile culturalmente e pericolosa socialmente, ad autorizzare la discoteca a 14 anni, magari organizzandosi con altri genitori per andarli a prendere fuori alle due di notte.
– Amore: da “restiamo insieme per amore dei figli” a “ci separiamo per amore dei figli”, con tutte le variabili intermedie a giustificazione di una o dell’altra scelta.
– Cura: da impegnare i figli in tutte le attività sportive o formative possibili a lasciarli da soli per ore davanti a qualsiasi dispositivo connesso “cosi stanno bravi”. Dalla festa di compleanno al McDonald’s alla dieta vegana.
– Protezione: da andare a litigare con la maestra (o i professori, anche a 18 anni…) per un rimprovero o un brutto voto, a non riconoscere un disturbo alimentare anche evidente.
Cosa significano questi estremi (di cui ho ovviamente evitato quelli patologici o multiproblematici che arrivano per invio dei servizi)? Che anche in educazione i significati vanno negoziati e che, è vero, non c’è un dizionario unico per tutti, soprattutto quando affetti profondi sono in gioco.
Mi vengono in mente alcune considerazioni semplici e per nulla accademiche.
Sappiamo che ogni tempo e ogni società hanno definito un proprio modello di educazione come “unico e giusto” e Recalcati ha approfondito in molti suoi scritti il passaggio attuale caratterizzato dalla “morte del padre”, cioe’ di quel modello autorevole (anche autoritario, spesso) e certo che ha formato generazioni su generazioni. Una “morte”, però, che sta permettendo la nascita di nuove domande sui modelli educativi, che sta buttando nella confusione almeno una generazione intera di genitori che, per questo, cercano risposte senza necessariamente votarsi alla semplificazione o alla banalizzazione di eventuali precetti.
Non penso, quindi, che siano tutti così sprovveduti da non saper riconoscere e distinguere i luoghi dell’educazione “prèt a portèr” (che e’ vero, esistono e spesso sono costosi) dai luoghi di confronto utili a farsi un’idea del tutto personale, questo sì, circa l’educazione del proprio figlio.
Non penso neanche che basti l’amore, che ha troppe declinazioni soggettive in nome delle quali si possono compiere enormi errori o aberrazioni, così come non penso che per essere buoni genitori basti il buonsenso.
Penso invece che occorrano luoghi per discutere, dove intrecciare saperi delle professioni con esperienze di vita: penso che asili e scuole dovrebbero spalancare le proprie porte a chi domanda e a chi vuole capire, creare opportunita’ di pensiero per non soccombere a questo clima di sfiducia nei confronti del sapere delle professioni e del saper pensare dei genitori.
Luoghi in cui si possa affermare, ancora una volta, che il pensiero critico fa parte di questa cultura sia dentro che fuori gli ambienti accademici.
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