‘Pena giunti in alto mare
bastimento si ribaltò
i miei capelli son ricci e belli
l’acqua del mare li marcirà
Il mio vestito da ballerina
L’acqua del mare lo bagnerà
Il mio sangue l’è così dolce
La balena me lo berrà
(“Mamma mia dammi cento lire”, canzone popolare italiana sull’emigrazione)
Guardando all’ultima, immane, tragedia del canale di Sicilia, viene spontaneo pensare che con i migranti è affondato ancora un altro pezzo della memoria di ciò che siamo stati e che un domani potremmo tornare ad essere.
Se c’è una vicenda che si ripete all’infinito, senza mai dare l’impressione di avere capitalizzato, sia pure in minima parte, la storia recente, questa è l’emigrazione. Siamo stati il sud del mondo, lo siamo ancora oggi, in diverse parti del globo, rappresentando all’estremo proprio ciò che la parola Sud evoca in buona parte del nostro settentrione: criminalità, miseria, degrado, fastidio.
Un sud enorme, eterogeneo, che spaziava dalla Sila al Polesine, dal Salento alle Langhe: una folla grande quanto l’Italia di cent’anni fa si è mossa, eppure nei libri di storia della nostra scuola non ne trovi traccia. Sconosciuta, negata, sparita. Nessuna traccia dei milioni di connazionali che hanno lasciato il paese per inseguire la speranza, e spesso hanno perso questo e quella, e a volte anche la vita, a volte negli stessi dettagli della tragedia. Questa copertina, di un giornale che non esiste più, racconta quanto successe la sera del 17 marzo 1891: Utopia, un bastimento inglese partito da Trieste con più di 800 migranti italiani, per una manovra errata affondò appena al largo di Gibilterra. Morirono 576 persone.
Nella costante chiamata alle armi per l’eccezionalità degli eventi a invocare l’eccezionalità dei provvedimenti, sarà bene abituarsi al fatto che ciò che succede è l’ennesima replica della stessa storia, come le catene di migrazione per famiglia o per mestiere o la presenza della criminalità nel traffico di poveracci.
L’emigrazione, nel suo tratto essenziale, è l’esportazione della miseria accompagnata dalla volontà di cancellarla. Ora si tenta di opporre una diversità inesistente tra una presunta “migrazione pulita” degli italiani nei quasi due secoli trascorsi alla “migrazione sporca” dei diseredati del presente.
Il “dopo”, nella Storia, è a volte incredibile: passato il fatto, si apre la gara alla retrocostruzione di fenomeni, identità e paesi immaginari, a rimuovere le colpe e a creare nuove verginità. In Italia le retoriche sull’ingegno e sullo spirito d’iniziativa che abbellivano il Bisogno sono stata una costruzione ideologica successiva, soprattutto nel ventennio fascista, quando la declamazione delle conquiste del regime aveva a supporto la negazione dell’emigrazione nei termini in cui è avvenuta e si contraddiceva apertamente proprio nell’esaltazione della fecondità che ci veniva rimproverata ovunque. Così, mentre a New York e a Buenos Aires ci accusavano di essere “dagoes” (accoltellatori) e di figliare come conigli, Mussolini benediceva a Roma una parata di 93 madri italiche con i propri 1320 figli, circa 14 a testa.
Le modalità dell’emigrazione e dell’insediamento erano poi, a volerle leggere, anticipazione fino al particolare di quanto avviene oggi e si articolarono prevalentemente attraverso catene migratorie per linee familiari, campanilistiche, regionali e di mestiere.
Non si contano, soprattutto nella fase iniziale dell’esodo, i numerosi episodi di taglieggiamento e di truffa ai danni chi doveva procurarsi il biglietto transoceanico (le stime indicano che più della metà degli emigrati negli anni novanta partì con un biglietto prepagato, che comportava un mercato e un negoziato di malaffare ai due estremi della rotta) e una volta giunti a destinazione la triste storia continuava ai danni di molti immigrati italiani, che dovevano versare una tangente per ottenere un lavoro e l’abitazione e avevano l’obbligo di acquistare le merci in uno spaccio indicato. Oltre a fornire la manovalanza per la criminalità, s’intende.
La crescita del pregiudizio è proporzionale alla rimozione della memoria, ma uno sforzo minimo di onestà porterà ad una conclusione soltanto: ogni emergenza emigrazione che scorgiamo minacciosa dalle coste dell’Africa, e ogni nefandezza che noi oggi rimproveriamo agli immigrati, le abbiamo prima rappresentate noi, per qualcun altro. E anche le reazioni, come è possibile desumere dall’atteggiamento di Zio Sam sulle banchine del suo porto, erano molto simili.
Il problema della criminalità? Non scherziamo, siamo stati dei maestri. Agli inizi del novecento, negli Usa, ogni tre francesi, quattro irlandesi e sette inglesi in gattabuia, c’erano venti dei nostri. E non c’è da stupirsi, era tutta gente emigrata da un paese dove la mortalità media arrivava a malapena ai quattordici anni e l’analfabetismo qualificava quasi la metà degli italiani, contro il 3% dei tedeschi e il 2% medio di chi viene oggi a cercare la vita da noi.
Rubano il lavoro ai nostri disoccupati, urlano le menti superbe di qualche miracolo appena accennato e già in esaurimento: con la stessa accusa, ad Aigues Mortes (sud della Francia, dove i cuneesi in particolare rappresentavano la manovalanza occasionale) ci hanno ucciso e fatti a pezzi a decine.
E se nel traffico dal sud del mondo a qui, oggi, non c’è tribuno da quattro soldi che non scorga legioni di terroristi di fatto o potenziali, anche in questo caso non dobbiamo imparare niente da nessuno: Mario Buda, romagnolo, si faceva chiamare Mike Boda e il 16 settembre 1920 fece saltare in aria Wall Street (l’attentato più sanguinoso negli Usa, fino a quello di Oklahoma City).
E ancora, era ieri, negli anni settanta e ottanta, quando la Svizzera ostacolava i ricongiungimenti familiari dei nostri emigranti. E i mariti assumevano le mogli come domestiche per farle arrivare. Nessuno ricorda nulla dei referendum contro i nostri immigrati dello xenofobo svizzero James Schwarzenbach? Trentamila erano, a metà degli anni Settanta, i bambini italiani clandestini in Svizzera: trentamila. Senza contare quelli che, denunciati da qualche patriottico vicino di casa, era espulso dal paese e andava ad affollare gli orfanotrofi di frontiera.
E’ il tempo l’unica, vera variante tra “noi” allora e gli immigrati in Italia oggi: da ricordare, e da far ricordare, quando guardiamo a Sud: prima di prenderla storta, prima di qualsiasi parola, prima di decidere qualunque cosa.
Michele Caprini per Cooperativa Minerva
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